Le lettere di Agata Pinnelli
Le foibe, una storia ancora da condividere.
In ricordo del finanziere Nicola Di Gennaro
lunedì 9 febbraio 2015
22.52
Parlando di infoibamento ci si riferisce ad una parola che si usa spesso come sinonimo di deportazione, oggi è più corretto considerarlo come la scomparsa di una persona. Molti prigionieri, durante la seconda guerra mondiale perirono nelle foibe, ma la maggior parte di loro morì in carcere o durante le lunghe "marce della morte", proprio come alcuni deportati nei lager nazisti. Fu usato questo metodo perché vi era la necessità di accelerare le esecuzioni a causa di un problema di ordine pratico, quali la mancanza o i pochi luoghi di detenzione a disposizione delle truppe di Tito. Quindi le foibe fornivano l'opportunità di uccidere in maniera celere senza grande dispendio di denaro per le munizioni, poiché, nella maggior parte dei casi, bastava sparare al primo della fila che, cadendo, avrebbe provocato la morte dei prigionieri con lui legati. Inoltre il terreno carsico non permette di scavare in tempi rapidi fosse comuni, come è stato fatto in gran parte dell'Europa nello stesso periodo.
La foiba per la gente giuliana, sia italiana che slava, era da sempre una discarica a cielo aperto e durante le guerre rappresentava il modo più rapido e gratuito di disfarsi dei caduti. Inoltre la celerità della sepoltura ne sviliva tutta la ritualità ad essa legata e l'elaborazione del lutto, nonché cancellava il diritto alla memoria del defunto. Ed ancora la spoliazione, prima dell'esecuzione, aggiungeva un ulteriore oltraggio alla vittima.
Nell'infoibamento, al contrario della sistematica macchina di morte nazista, non c'era conflitto di razze, era piuttosto una lotta tra due concezioni ideologiche per il controllo del territorio. L'obiettivo non era eliminare i fascisti, ma la classe dirigente italiana in modo da creare un vuoto di potere che gli slavi titini si apprestavano a colmare. Non fu un momentaneo, incontrollabile e spontaneo furore del popolo, bensì una reale epurazione sotto l'egida del nuovo regime titino. Ciò è avvalorato dalla larga autonomia che godevano i giudici e i tribunali. Infatti c'erano magistrati famosi per la loro crudeltà, come ad esempio Ivan Motika, soprannominato il Boia di Pisino per la sua fama di infoibatore, è ritenuto dagli storici una figura di primo piano per quanto riguarda i processi "farsa" e i successivi eccidi di massa.
Gli infoibamenti avvenuti sul confine orientale nel 43, nel 45 e per alcuni anni dopo la conclusione del conflitto, sono eccidi che hanno una loro intrinseca specificità, in quanto la quasi totalità delle vittime venne deportata ed uccisa senza che della loro sorte fosse data alcuna notizia ai parenti, in un alone di mistero e terrore che colpì l'immaginario della popolazione giuliana. Nessuno riceveva più notizia degli arrestati e in molti casi ancora oggi i figli di queste persone deportate non sanno dove posare un fiore in memoria dei propri cari.
"""Non si può parlare di vera pulizia etnica – spiega lo storico Guido Rumici – perché il fatto che la gran parte delle persone arrestate e poi uccise dagli jugoslavi fossero di lingua e cultura italiana (ma in realtà ci furono anche sloveni e croati uccisi in quei giorni) fece sì che tali violenze fossero percepite in chiave etnica. Non bisogna dimenticare però che in questa tragedia i fattori nazionali, politici ed ideologici si mescolarono tra loro in un intreccio molto complesso, collegato alla presa di potere in modo rivoluzionario da parte di Tito in seguito ad una guerra di liberazione, che era stata anche una guerra civile connotata da un clima di violenze sempre più intenso. La Venezia Giulia per i titini era terra jugoslava e come tale andava trattata nell'imporre il nuovo ordine. Lo stesso copione sanguinoso e brutale fu attuato da Tito nelle altre aree geografiche della nuova Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia che stava nascendo. Per cui la tematica delle foibe va incanalata nella serie di violenze perpetrate dal regime titino che investì non solo la Venezia Giulia e la Dalmazia ma pure la Slovenia e la Croazia. Tali stragi rappresentano uno dei passaggi cruciali con cui le autorità comuniste presero il potere alla fine del conflitto mondiale e lo consolidarono negli anni successivi""".
"""Le foibe del '43 - afferma anche lo storico Raoul Pupo - furono gli esiti di un progetto di distruzione del potere italiano sull'entroterra istriano e della sua sostituzione con il contro potere partigiano""".
In questa prima fase l'Istria, regione del confine orientale, con la disgregazione dell'impero asburgico alla fine della prima guerra mondiale, fu assegnata definitivamente all'Italia nel 1920, contesa vivamente anche dal nuovo stato jugoslavo, la cui costituzione aveva riaperto complicati contenziosi confinari. L'avvento del fascismo impedì al governo liberale italiano di concretizzare le garanzie di libertà di lingua e di cultura per le minoranze slave del territorio. Infatti esso, anziché instaurare una convivenza pacifica del rispetto della identità culturale, cercò di italianizzare con la forza gli slavi. Fu così che dopo l'armistizio italiano dell'otto settembre 1943 con gli alleati, i titini (partigiani slavi di Tito) si vendicarono in maniera terribile guidati non solo dall'odio nei confronti degli italiani, identificati tutti come fascisti, ma anche dal progetto slavo comunista di estendersi il più possibile verso occidente sia territorialmente che ideologicamente. Dato che l'esercito italiano era allo sbando e si stava diffondendo la psicosi del "tutti a casa", per le unità partigiane slave la conquista della regione fu rapida ed incontrastata, tutta la vasta rete bellica italiana fu rapidamente smantellata; soltanto Fiume, Pola e poche altre località costiere rimasero sotto il controllo dei tedeschi, ivi presenti. Sollecitati dai miliziani slavi scesero in campo anche gli attivisti sloveni e croati, gli istriani di origine slava, nonché molti gruppi di italiani antifascisti che giudicavano necessaria l'unione delle forze per battere il fascismo e il tedesco invasore. Per questo confuso coinvolgimento, gli storici jugoslavi osarono definire "insurrezione popolare" ciò che in realtà fu un'occupazione militare vera e propria.
L'Istria si colorò di vessilli nazionali sloveni e croati, dove non trovarono visibilità netta né le bandiere rosse, simbolo della rivoluzione proletaria e del comunismo internazionale, né i tricolori italiani. Ciò determinò forti perplessità nei nostri antifascisti che avevano partecipato "all'insurrezione", perplessità che ben presto si trasformarono in serie preoccupazioni, mettendo in crisi di coscienza tutti coloro che avevano accolto i "titini" come liberatori. Infatti i miliziani slavi cominciarono la caccia al fascista che equivaleva alla caccia all'italiano: gli arresti avvenivano di notte, quasi sempre giustificati come normali accertamenti di routine, evitando, così, che il panico si sviluppasse in tutta la sua disperazione con immediatezza. Caddero nella rete dell'odio e della vendetta centinaia di italiani, dai collaborazionisti ai proprietari terrieri e a tutti quelli che svolgevano una funzione pubblica, le cui colpe erano l'appartenenza ad una classe sociale borghese, oppure l'aver professato idee politiche diverse da quelle degli occupanti, oltre al comune grave reato di essere italiani. Nessuno voleva credere a quegli orrori ritenendoli frutto di qualche fantasia malata o di una strumentalizzazione propagandistica messa in atto dai fascisti e dai tedeschi. Solo più tardi, quando cominciarono le operazioni di recupero, si scoprì che la realtà era peggiore di quella che si era immaginata: queste esecuzioni di massa non potevano essere interpretate come una risposta o una vendetta del gruppo etnico slavo ai soprusi e alle vessazioni subite. Era evidente a tutti l'enorme sproporzione. """Doveva trattarsi di qualcosa di più, di un progetto consapevole e preciso di pulizia etnica - diceva il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano - per estirpare gli italiani dall'Istria uccidendoli o costringendoli a fuggire""".
Pur nella loro drammaticità le foibe nella prima stagione non hanno squilibrato l'assetto etnico che invece ha prodotto l'esodo. L'annuncio a sorpresa dell'armistizio del Governo Badoglio dell'8 settembre 1943 con gli alleati fece sorgere negli italiani due angosciosi interrogativi: cosa faranno ora gli slavi e cosa i tedeschi? Infatti dopo l'intervento titino di vendetta nell'Istria, nelle zone della Venezia Giulia e della Dalmazia si abbatté la controffensiva tedesca che portò le popolazioni giuliane a subire una snazionalizzazione austro – tedesca come ai tempi asburgici: gli italiani furono considerati stranieri nel proprio territorio, fu proibito anche l'esposizione del tricolore, e quest'opera diventò una vera provocazione anti italiana. Così ben presto i tedeschi riconquistarono l'Istria e la Dalmazia con un nubifragio di fuoco, lasciando rovine e massacri di innocenti. Mentre i partigiani titini non tentarono di resistere e fuggirono in massa verso le montagne della Croazia e Slovenia. Il Governo italiano del Sud poteva fare ben poco a favore del caso giuliano in quanto rappresentante di un paese sconfitto, gli alleati non gli avrebbero mai consentito di interferire nelle operazioni militari.
Le tre potenze vincitrici avevano idee diverse sulla questione: a favore di Tito era l'Unione Sovietica, perché Stalin, sottovalutando l'abilità politica di Tito, già vedeva la Jugoslavia come un futuro satellite di Mosca. Favorevoli all'Italia erano invece gli Stati Uniti che miravano a fare dell'Italia un caposaldo contro l'espansionismo sovietico e di Trieste il capolinea delle vie di rifornimento all'esercito americano nell'Europa centrale. La Gran Bretagna aveva un debito morale nei confronti della Jugoslavia, non poteva dimenticare le promesse fatte da Churchill ai partigiani slavi che per prima erano insorti contro i tedeschi padroni dell'Europa e Tito si sentiva l'unico beneficiario, perché nessuno gli poteva negare il merito di aver dato un gran contributo alla vittoria sul nazismo, al contrario l'Italia era nell'immaginario collettivo inglese il paese nemico che aveva collaborato con i tedeschi a bombardare Londra.
Nella primavera del '45 Tito si stava avvicinando a Trieste con rapidità e gli americani cominciarono a preoccuparsi. Anche Churchill si preoccupò e si rivolse al presidente americano Truman condividendo la necessità di conquistare la città prima dell'arrivo di Tito, ricordando il principio di Stalin del quale Tito faceva tesoro "Il possesso costituisce i nove decimi del diritto" ed inoltre erano preoccupati che Tito non mantenesse gli impegni e procedesse all'occupazione militare.
Così sia gli alleati che Tito concentrarono gli sforzi per arrivare primi a Trieste, vince la corsa Tito.
Il mattino del primo maggio del '45 le truppe jugoslave entrano a Trieste mentre gli alleati entrano il pomeriggio del due maggio. Ora Tito poteva attribuire alle sue forze la liberazione della capitale giuliana, anche se Trieste si era liberata da sola il 28 aprile quando si era diffusa la notizia della resa dei tedeschi in Italia. Infatti si valutò la proposta di costituire un unico fronte anti slavo formato dalle poche forze residue della RSI (Repubblica Sociale Italiana) con quelle del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), ma era impensabile che fascisti e antifascisti dopo mesi di guerra civile potessero cancellare di colpo tutto quello che li divideva.
Nelle altre parti d'Italia i vari CLN raggruppavano tutti i partiti antifascisti e di conseguenza potevano in concordia coordinare le loro azioni, mentre il CLN triestino, benché abbandonato dai comunisti che avevano fatto causa comune con gli slavi, non poteva non tener conto del peso politico esercitato dal PCI e in ciò era la sua debolezza quando dovette compiere la scelta: allearsi con i fascisti per combattere gli slavi, oppure affiancarsi al fronte di liberazione italo sloveno ed accogliere come liberatrici le truppe di Tito. La sera del 30 aprile, quando ancora non si sapeva chi sarebbe arrivato prima, un messaggio di Palmiro Togliatti invitava i triestini a non cadere vittime dei provocatori interessati a seminare discordia tra italiani e jugoslavi.
Per quaranta lunghissimi giorni (primo maggio – dodici giugno) Trieste sarà a tutti gli effetti una città jugoslava e i triestini ne soffriranno le tragiche sofferenze. Il tre maggio il comando militare jugoslavo emanava le prime disposizioni: benché la guerra fosse finita fu proclamato lo stato di guerra e molte classi vennero richiamate alle armi; fu proclamata la legge marziale, imposto un rigido coprifuoco, spostata l'ora legale a quella di Belgrado per uniformare Trieste al resto della Jugoslavia. Il CLN venne subito esautorato, annullate le sue disposizioni e perseguitati i suoi dirigenti di cui molti rientrarono nella clandestinità insieme a molti partigiani italiani che avevano rifiutato di consegnare le armi.
La libertà di stampa che aveva visto la luce per pochi giorni fu soppressa; la banca d'Italia fu dichiarata in liquidazione per cedere il posto alla banca nazionale slovena.
Accanto all'opera ufficiale si era scatenata l'attività della polizia segreta (OZNA) appoggiata dalla Guardia del Popolo. I tricolori esposti per salutare l'arrivo alleato dei neozelandesi furono strappati e mitragliati, cancellati tutti i simboli che assumevano un significato di italianità. Tutti gli italiani che si dichiaravano tali erano considerati automaticamente nemici del popolo, anche quelli che avevano combattuto e sofferto nella Resistenza al loro fianco. Solo chi accettava la pregiudiziale jugoslava era considerato un buon democratico.
Migliaia di triestini scesero in piazza con i tricolori in risposta alle tante manifestazioni jugoslave; il corteo che si era formato spontaneamente dietro un gruppo di giovani studenti si ingrossò a vista d'occhio e sfilò pacificamente cantando gli inni nazionali quando comparvero i miliziani di Tito che aprirono il fuoco, lasciando a terra cinque morti e decine di feriti davanti allo sguardo ammutolito di soldati alleati neozelandesi, che inerti si limitarono a scattare foto, mentre il loro generale Freyberg continuava a ricevere delegazioni italiane cittadine senza prendere iniziative.
Nelle sue "Memorie" Churchill non spiega le ragioni o gli accordi che imposero ai soldati britannici di trasformarsi in muti spettatori davanti alle barbarie anti italiane. """Nella Venezia Giulia – afferma – i nostri uomini erano costretti ad assistere senza la possibilità di intervenire ad azioni che offendevano il loro senso di giustizia e sentivano che ciò equivaleva ad una acquiescenza del misfatto""".
Trieste perde la libertà prima di averla ritrovata. La repressione slava colpisce fascisti e collaborazionisti, ma questi sono in numero irrilevante rispetto alla quantità delle vittime. In realtà si vuole fare pulizia di tutto ciò che è italiano, piuttosto che colpire i fascisti. """Infatti - racconta lo storico Antonio Pitamiz - i primi ad essere prelevati dalla Guardia del Popolo sono i finanzieri che insieme ai carabinieri avevano sostenuto la Resistenza e partecipato alla liberazione della città con i volontari del CLN. Viene meno con loro l'ultima forte presenza dello Stato Italiano della città. I finanzieri scomparsi sono certamente molto di più dei novantasette dati per ufficialmente dispersi. Sul possibile destino di tanti altri è illuminante la testimonianza resa dal marinaio Angelo D'Ambrosio. Egli vide in quei giorni nei pressi di San Pietro del Carso una colonna di 180 finanzieri scortati da partigiani titini. Gli dicono di essere diretti verso un campo di concentramento ma durante la notte ode il sinistro crepitio dei mitra. Il giorno dopo il marinaio vede passare sei carri carichi di cadaveri seminudi, seguiti più tardi dai partigiani della brigata Tito con indosso l'uniforme della Guardia di Finanza, gradi e decorazioni compresi""".
In questo contesto si inserisce la tragica vicenda del nostro concittadino Nicola Di Gennaro(1916-1945), il finanziere in servizio presso la Caserma di Trieste di Campo Marzio. Qui con l'inganno venne disarmato ed arrestato, unitamente ad altri 85 suoi commilitoni dalle orde feroci dell'OZNA, la polizia segreta di Tito. Tutti vennero deportati verso Zagabria scalzi, in mutande e con le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro come abitualmente facevano con i loro prigionieri. Di loro si persero le tracce e solo qualche anno più tardi si dedusse con certezza che a Zagabria non giunsero mai, perché erano stati tutti barbaramente uccisi a colpi di mitra e gettati nella foiba di Basovizza. Anche a Trieste come a Pola, Fiume e Zara ebbero luogo gli infoibamenti collettivi: nelle ampie voragini, che sprofondano per centinaia di metri nel sottosuolo carsico, gli italiani vengono precipitati a centinaia: con loro anche i tedeschi, i croati ustascia e altri serbi ribelli. Da una foiba furono recuperati anche cadaveri di 12 militari neozelandesi. La tecnica dell'infoibamento era quella già sperimentata in Istria nel 43. Qui a volte gli aguzzini si divertono con i morituri: " chi riesce a saltare dall'altra parte sarà risparmiato" promettono. Qualcuno ci prova e precipita nel baratro, ma anche quelli che ci riescono vengono abbattuti, perché non ci devono essere testimoni. A differenza di quanto accadde dopo l'otto settembre in cui le vittime delle foibe erano prelevati fra gli italiani abitanti nei paesi di campagna, ora i catturati e gli infoibati sono prevalentemente italiani delle città: si verifica un salto di qualità nella cosiddetta pulizia etnica che diventa politica; adesso si procede sistematicamente anche alla eliminazione di quegli esponenti politici italiani, i quali, pur avendo combattuto contro il fascismo, rappresentano un ostacolo alle mire annessionistiche di Belgrado.
In conclusione l'infoibamento ha avuto un decorso che può essere riassunto in tre fasi:
a) all'indomani dell'8 settembre del '43 fino alla metà del mese di ottobre quando tornarono i tedeschi; si concentrò nell'Istria; questa fase fu caratterizzata da una ferocia disumana in special modo sulle donne quasi a voler colpire gli uomini, gli italiani, quindi i fascisti nei loro affetti più cari;
b) dal 1 maggio 1945, arrivo di Tito a Trieste fino al 12 giugno quando si insediò il Governo Militare Alleato nella zona A della Venezia Giulia;
c) dalla rioccupazione delle truppe jugoslave oltre la fine del conflitto mondiale, in cui le foibe hanno costituito lo strumento di eliminazione della dirigenza italiana per il controllo del potere.
La specificità delle foibe sta nel fatto di aver rappresentato il vertice della violenza che la popolazione ha subito parallelamente a tutte le altre forme connesse alla seconda guerra mondiale.
Ancora oggi i parenti delle vittime dopo decenni di silenzio chiedono chiarezza e giustizia per un crimine restato impunito . Essi esigono la dignità di una memoria storica, coniugando anche l'esodo che li ha colpiti, come consapevolezza dei torti subiti.
Agata Pinnelli
Si ringraziano le famiglie Di Gennaro e Mazza per la concessione delle fotografie e delle notizie, attinte anche dal mensile "Il Finanziere" di marzo 2014 e dagli archivi del Museo Storico della Guardia di Finanza di Roma.
La foiba per la gente giuliana, sia italiana che slava, era da sempre una discarica a cielo aperto e durante le guerre rappresentava il modo più rapido e gratuito di disfarsi dei caduti. Inoltre la celerità della sepoltura ne sviliva tutta la ritualità ad essa legata e l'elaborazione del lutto, nonché cancellava il diritto alla memoria del defunto. Ed ancora la spoliazione, prima dell'esecuzione, aggiungeva un ulteriore oltraggio alla vittima.
Nell'infoibamento, al contrario della sistematica macchina di morte nazista, non c'era conflitto di razze, era piuttosto una lotta tra due concezioni ideologiche per il controllo del territorio. L'obiettivo non era eliminare i fascisti, ma la classe dirigente italiana in modo da creare un vuoto di potere che gli slavi titini si apprestavano a colmare. Non fu un momentaneo, incontrollabile e spontaneo furore del popolo, bensì una reale epurazione sotto l'egida del nuovo regime titino. Ciò è avvalorato dalla larga autonomia che godevano i giudici e i tribunali. Infatti c'erano magistrati famosi per la loro crudeltà, come ad esempio Ivan Motika, soprannominato il Boia di Pisino per la sua fama di infoibatore, è ritenuto dagli storici una figura di primo piano per quanto riguarda i processi "farsa" e i successivi eccidi di massa.
Gli infoibamenti avvenuti sul confine orientale nel 43, nel 45 e per alcuni anni dopo la conclusione del conflitto, sono eccidi che hanno una loro intrinseca specificità, in quanto la quasi totalità delle vittime venne deportata ed uccisa senza che della loro sorte fosse data alcuna notizia ai parenti, in un alone di mistero e terrore che colpì l'immaginario della popolazione giuliana. Nessuno riceveva più notizia degli arrestati e in molti casi ancora oggi i figli di queste persone deportate non sanno dove posare un fiore in memoria dei propri cari.
"""Non si può parlare di vera pulizia etnica – spiega lo storico Guido Rumici – perché il fatto che la gran parte delle persone arrestate e poi uccise dagli jugoslavi fossero di lingua e cultura italiana (ma in realtà ci furono anche sloveni e croati uccisi in quei giorni) fece sì che tali violenze fossero percepite in chiave etnica. Non bisogna dimenticare però che in questa tragedia i fattori nazionali, politici ed ideologici si mescolarono tra loro in un intreccio molto complesso, collegato alla presa di potere in modo rivoluzionario da parte di Tito in seguito ad una guerra di liberazione, che era stata anche una guerra civile connotata da un clima di violenze sempre più intenso. La Venezia Giulia per i titini era terra jugoslava e come tale andava trattata nell'imporre il nuovo ordine. Lo stesso copione sanguinoso e brutale fu attuato da Tito nelle altre aree geografiche della nuova Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia che stava nascendo. Per cui la tematica delle foibe va incanalata nella serie di violenze perpetrate dal regime titino che investì non solo la Venezia Giulia e la Dalmazia ma pure la Slovenia e la Croazia. Tali stragi rappresentano uno dei passaggi cruciali con cui le autorità comuniste presero il potere alla fine del conflitto mondiale e lo consolidarono negli anni successivi""".
"""Le foibe del '43 - afferma anche lo storico Raoul Pupo - furono gli esiti di un progetto di distruzione del potere italiano sull'entroterra istriano e della sua sostituzione con il contro potere partigiano""".
In questa prima fase l'Istria, regione del confine orientale, con la disgregazione dell'impero asburgico alla fine della prima guerra mondiale, fu assegnata definitivamente all'Italia nel 1920, contesa vivamente anche dal nuovo stato jugoslavo, la cui costituzione aveva riaperto complicati contenziosi confinari. L'avvento del fascismo impedì al governo liberale italiano di concretizzare le garanzie di libertà di lingua e di cultura per le minoranze slave del territorio. Infatti esso, anziché instaurare una convivenza pacifica del rispetto della identità culturale, cercò di italianizzare con la forza gli slavi. Fu così che dopo l'armistizio italiano dell'otto settembre 1943 con gli alleati, i titini (partigiani slavi di Tito) si vendicarono in maniera terribile guidati non solo dall'odio nei confronti degli italiani, identificati tutti come fascisti, ma anche dal progetto slavo comunista di estendersi il più possibile verso occidente sia territorialmente che ideologicamente. Dato che l'esercito italiano era allo sbando e si stava diffondendo la psicosi del "tutti a casa", per le unità partigiane slave la conquista della regione fu rapida ed incontrastata, tutta la vasta rete bellica italiana fu rapidamente smantellata; soltanto Fiume, Pola e poche altre località costiere rimasero sotto il controllo dei tedeschi, ivi presenti. Sollecitati dai miliziani slavi scesero in campo anche gli attivisti sloveni e croati, gli istriani di origine slava, nonché molti gruppi di italiani antifascisti che giudicavano necessaria l'unione delle forze per battere il fascismo e il tedesco invasore. Per questo confuso coinvolgimento, gli storici jugoslavi osarono definire "insurrezione popolare" ciò che in realtà fu un'occupazione militare vera e propria.
L'Istria si colorò di vessilli nazionali sloveni e croati, dove non trovarono visibilità netta né le bandiere rosse, simbolo della rivoluzione proletaria e del comunismo internazionale, né i tricolori italiani. Ciò determinò forti perplessità nei nostri antifascisti che avevano partecipato "all'insurrezione", perplessità che ben presto si trasformarono in serie preoccupazioni, mettendo in crisi di coscienza tutti coloro che avevano accolto i "titini" come liberatori. Infatti i miliziani slavi cominciarono la caccia al fascista che equivaleva alla caccia all'italiano: gli arresti avvenivano di notte, quasi sempre giustificati come normali accertamenti di routine, evitando, così, che il panico si sviluppasse in tutta la sua disperazione con immediatezza. Caddero nella rete dell'odio e della vendetta centinaia di italiani, dai collaborazionisti ai proprietari terrieri e a tutti quelli che svolgevano una funzione pubblica, le cui colpe erano l'appartenenza ad una classe sociale borghese, oppure l'aver professato idee politiche diverse da quelle degli occupanti, oltre al comune grave reato di essere italiani. Nessuno voleva credere a quegli orrori ritenendoli frutto di qualche fantasia malata o di una strumentalizzazione propagandistica messa in atto dai fascisti e dai tedeschi. Solo più tardi, quando cominciarono le operazioni di recupero, si scoprì che la realtà era peggiore di quella che si era immaginata: queste esecuzioni di massa non potevano essere interpretate come una risposta o una vendetta del gruppo etnico slavo ai soprusi e alle vessazioni subite. Era evidente a tutti l'enorme sproporzione. """Doveva trattarsi di qualcosa di più, di un progetto consapevole e preciso di pulizia etnica - diceva il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano - per estirpare gli italiani dall'Istria uccidendoli o costringendoli a fuggire""".
Pur nella loro drammaticità le foibe nella prima stagione non hanno squilibrato l'assetto etnico che invece ha prodotto l'esodo. L'annuncio a sorpresa dell'armistizio del Governo Badoglio dell'8 settembre 1943 con gli alleati fece sorgere negli italiani due angosciosi interrogativi: cosa faranno ora gli slavi e cosa i tedeschi? Infatti dopo l'intervento titino di vendetta nell'Istria, nelle zone della Venezia Giulia e della Dalmazia si abbatté la controffensiva tedesca che portò le popolazioni giuliane a subire una snazionalizzazione austro – tedesca come ai tempi asburgici: gli italiani furono considerati stranieri nel proprio territorio, fu proibito anche l'esposizione del tricolore, e quest'opera diventò una vera provocazione anti italiana. Così ben presto i tedeschi riconquistarono l'Istria e la Dalmazia con un nubifragio di fuoco, lasciando rovine e massacri di innocenti. Mentre i partigiani titini non tentarono di resistere e fuggirono in massa verso le montagne della Croazia e Slovenia. Il Governo italiano del Sud poteva fare ben poco a favore del caso giuliano in quanto rappresentante di un paese sconfitto, gli alleati non gli avrebbero mai consentito di interferire nelle operazioni militari.
Le tre potenze vincitrici avevano idee diverse sulla questione: a favore di Tito era l'Unione Sovietica, perché Stalin, sottovalutando l'abilità politica di Tito, già vedeva la Jugoslavia come un futuro satellite di Mosca. Favorevoli all'Italia erano invece gli Stati Uniti che miravano a fare dell'Italia un caposaldo contro l'espansionismo sovietico e di Trieste il capolinea delle vie di rifornimento all'esercito americano nell'Europa centrale. La Gran Bretagna aveva un debito morale nei confronti della Jugoslavia, non poteva dimenticare le promesse fatte da Churchill ai partigiani slavi che per prima erano insorti contro i tedeschi padroni dell'Europa e Tito si sentiva l'unico beneficiario, perché nessuno gli poteva negare il merito di aver dato un gran contributo alla vittoria sul nazismo, al contrario l'Italia era nell'immaginario collettivo inglese il paese nemico che aveva collaborato con i tedeschi a bombardare Londra.
Nella primavera del '45 Tito si stava avvicinando a Trieste con rapidità e gli americani cominciarono a preoccuparsi. Anche Churchill si preoccupò e si rivolse al presidente americano Truman condividendo la necessità di conquistare la città prima dell'arrivo di Tito, ricordando il principio di Stalin del quale Tito faceva tesoro "Il possesso costituisce i nove decimi del diritto" ed inoltre erano preoccupati che Tito non mantenesse gli impegni e procedesse all'occupazione militare.
Così sia gli alleati che Tito concentrarono gli sforzi per arrivare primi a Trieste, vince la corsa Tito.
Il mattino del primo maggio del '45 le truppe jugoslave entrano a Trieste mentre gli alleati entrano il pomeriggio del due maggio. Ora Tito poteva attribuire alle sue forze la liberazione della capitale giuliana, anche se Trieste si era liberata da sola il 28 aprile quando si era diffusa la notizia della resa dei tedeschi in Italia. Infatti si valutò la proposta di costituire un unico fronte anti slavo formato dalle poche forze residue della RSI (Repubblica Sociale Italiana) con quelle del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), ma era impensabile che fascisti e antifascisti dopo mesi di guerra civile potessero cancellare di colpo tutto quello che li divideva.
Nelle altre parti d'Italia i vari CLN raggruppavano tutti i partiti antifascisti e di conseguenza potevano in concordia coordinare le loro azioni, mentre il CLN triestino, benché abbandonato dai comunisti che avevano fatto causa comune con gli slavi, non poteva non tener conto del peso politico esercitato dal PCI e in ciò era la sua debolezza quando dovette compiere la scelta: allearsi con i fascisti per combattere gli slavi, oppure affiancarsi al fronte di liberazione italo sloveno ed accogliere come liberatrici le truppe di Tito. La sera del 30 aprile, quando ancora non si sapeva chi sarebbe arrivato prima, un messaggio di Palmiro Togliatti invitava i triestini a non cadere vittime dei provocatori interessati a seminare discordia tra italiani e jugoslavi.
Per quaranta lunghissimi giorni (primo maggio – dodici giugno) Trieste sarà a tutti gli effetti una città jugoslava e i triestini ne soffriranno le tragiche sofferenze. Il tre maggio il comando militare jugoslavo emanava le prime disposizioni: benché la guerra fosse finita fu proclamato lo stato di guerra e molte classi vennero richiamate alle armi; fu proclamata la legge marziale, imposto un rigido coprifuoco, spostata l'ora legale a quella di Belgrado per uniformare Trieste al resto della Jugoslavia. Il CLN venne subito esautorato, annullate le sue disposizioni e perseguitati i suoi dirigenti di cui molti rientrarono nella clandestinità insieme a molti partigiani italiani che avevano rifiutato di consegnare le armi.
La libertà di stampa che aveva visto la luce per pochi giorni fu soppressa; la banca d'Italia fu dichiarata in liquidazione per cedere il posto alla banca nazionale slovena.
Accanto all'opera ufficiale si era scatenata l'attività della polizia segreta (OZNA) appoggiata dalla Guardia del Popolo. I tricolori esposti per salutare l'arrivo alleato dei neozelandesi furono strappati e mitragliati, cancellati tutti i simboli che assumevano un significato di italianità. Tutti gli italiani che si dichiaravano tali erano considerati automaticamente nemici del popolo, anche quelli che avevano combattuto e sofferto nella Resistenza al loro fianco. Solo chi accettava la pregiudiziale jugoslava era considerato un buon democratico.
Migliaia di triestini scesero in piazza con i tricolori in risposta alle tante manifestazioni jugoslave; il corteo che si era formato spontaneamente dietro un gruppo di giovani studenti si ingrossò a vista d'occhio e sfilò pacificamente cantando gli inni nazionali quando comparvero i miliziani di Tito che aprirono il fuoco, lasciando a terra cinque morti e decine di feriti davanti allo sguardo ammutolito di soldati alleati neozelandesi, che inerti si limitarono a scattare foto, mentre il loro generale Freyberg continuava a ricevere delegazioni italiane cittadine senza prendere iniziative.
Nelle sue "Memorie" Churchill non spiega le ragioni o gli accordi che imposero ai soldati britannici di trasformarsi in muti spettatori davanti alle barbarie anti italiane. """Nella Venezia Giulia – afferma – i nostri uomini erano costretti ad assistere senza la possibilità di intervenire ad azioni che offendevano il loro senso di giustizia e sentivano che ciò equivaleva ad una acquiescenza del misfatto""".
Trieste perde la libertà prima di averla ritrovata. La repressione slava colpisce fascisti e collaborazionisti, ma questi sono in numero irrilevante rispetto alla quantità delle vittime. In realtà si vuole fare pulizia di tutto ciò che è italiano, piuttosto che colpire i fascisti. """Infatti - racconta lo storico Antonio Pitamiz - i primi ad essere prelevati dalla Guardia del Popolo sono i finanzieri che insieme ai carabinieri avevano sostenuto la Resistenza e partecipato alla liberazione della città con i volontari del CLN. Viene meno con loro l'ultima forte presenza dello Stato Italiano della città. I finanzieri scomparsi sono certamente molto di più dei novantasette dati per ufficialmente dispersi. Sul possibile destino di tanti altri è illuminante la testimonianza resa dal marinaio Angelo D'Ambrosio. Egli vide in quei giorni nei pressi di San Pietro del Carso una colonna di 180 finanzieri scortati da partigiani titini. Gli dicono di essere diretti verso un campo di concentramento ma durante la notte ode il sinistro crepitio dei mitra. Il giorno dopo il marinaio vede passare sei carri carichi di cadaveri seminudi, seguiti più tardi dai partigiani della brigata Tito con indosso l'uniforme della Guardia di Finanza, gradi e decorazioni compresi""".
In questo contesto si inserisce la tragica vicenda del nostro concittadino Nicola Di Gennaro(1916-1945), il finanziere in servizio presso la Caserma di Trieste di Campo Marzio. Qui con l'inganno venne disarmato ed arrestato, unitamente ad altri 85 suoi commilitoni dalle orde feroci dell'OZNA, la polizia segreta di Tito. Tutti vennero deportati verso Zagabria scalzi, in mutande e con le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro come abitualmente facevano con i loro prigionieri. Di loro si persero le tracce e solo qualche anno più tardi si dedusse con certezza che a Zagabria non giunsero mai, perché erano stati tutti barbaramente uccisi a colpi di mitra e gettati nella foiba di Basovizza. Anche a Trieste come a Pola, Fiume e Zara ebbero luogo gli infoibamenti collettivi: nelle ampie voragini, che sprofondano per centinaia di metri nel sottosuolo carsico, gli italiani vengono precipitati a centinaia: con loro anche i tedeschi, i croati ustascia e altri serbi ribelli. Da una foiba furono recuperati anche cadaveri di 12 militari neozelandesi. La tecnica dell'infoibamento era quella già sperimentata in Istria nel 43. Qui a volte gli aguzzini si divertono con i morituri: " chi riesce a saltare dall'altra parte sarà risparmiato" promettono. Qualcuno ci prova e precipita nel baratro, ma anche quelli che ci riescono vengono abbattuti, perché non ci devono essere testimoni. A differenza di quanto accadde dopo l'otto settembre in cui le vittime delle foibe erano prelevati fra gli italiani abitanti nei paesi di campagna, ora i catturati e gli infoibati sono prevalentemente italiani delle città: si verifica un salto di qualità nella cosiddetta pulizia etnica che diventa politica; adesso si procede sistematicamente anche alla eliminazione di quegli esponenti politici italiani, i quali, pur avendo combattuto contro il fascismo, rappresentano un ostacolo alle mire annessionistiche di Belgrado.
In conclusione l'infoibamento ha avuto un decorso che può essere riassunto in tre fasi:
a) all'indomani dell'8 settembre del '43 fino alla metà del mese di ottobre quando tornarono i tedeschi; si concentrò nell'Istria; questa fase fu caratterizzata da una ferocia disumana in special modo sulle donne quasi a voler colpire gli uomini, gli italiani, quindi i fascisti nei loro affetti più cari;
b) dal 1 maggio 1945, arrivo di Tito a Trieste fino al 12 giugno quando si insediò il Governo Militare Alleato nella zona A della Venezia Giulia;
c) dalla rioccupazione delle truppe jugoslave oltre la fine del conflitto mondiale, in cui le foibe hanno costituito lo strumento di eliminazione della dirigenza italiana per il controllo del potere.
La specificità delle foibe sta nel fatto di aver rappresentato il vertice della violenza che la popolazione ha subito parallelamente a tutte le altre forme connesse alla seconda guerra mondiale.
Ancora oggi i parenti delle vittime dopo decenni di silenzio chiedono chiarezza e giustizia per un crimine restato impunito . Essi esigono la dignità di una memoria storica, coniugando anche l'esodo che li ha colpiti, come consapevolezza dei torti subiti.
Agata Pinnelli
Si ringraziano le famiglie Di Gennaro e Mazza per la concessione delle fotografie e delle notizie, attinte anche dal mensile "Il Finanziere" di marzo 2014 e dagli archivi del Museo Storico della Guardia di Finanza di Roma.