Leonardo Zellino
Leonardo Zellino
Storia

Intervista all’inviato del TG2 in Ucraina Leonardo Zellino

Pubblicata sull'ultimo numero de "Il Campanile"

L'ultimo numero de "Il Campanile", pubblicato a Pasqua 2022, riporta l'intervista al giornalista professionista Leonardo Zellino, inviato della RAI, che sta seguendo il conflitto tra Russia e Ucraìna. Un'intervista che ci aiuta a capire ancora di più, da un testimone diretto, il dramma che sta vivendo la popolazione ucraina e il dolore per le tante vittime sacrificate da ognuna delle due parti contendenti. Leonardo Zellino, nato a Canosa di Puglia, laureato in Sociologia presso La Sapienza di Roma con una tesi in Relazioni Internazionali sulla politica estera degli Stati Uniti, ha frequentato poi la Scuola di Giornalismo ad Urbino. Ha 43 anni, sposato, vive a Roma.

La dolorosa esperienza in Ucraìna, quali sono le immagini più intense che conservi indelebili nella tua mente? La prima è l'arrivo in Ucraìna. La guerra era appena iniziata alla frontiera di Siret, tra Romania e Ucraìna. Io andavo in una direzione e una folla enorme di gente andava nell'altra, chilometri e chilometri di code, di mezzi, di auto, tir, pulmini, di tutto; tantissima gente a piedi ed io da solo con il mio collega operatore, Maurizio Calaiò, che andavamo nella direzione opposta. Da una parte la gente che fuggiva dalla guerra e che provava a mettersi in salvo e noi che andavamo incontro alla guerra. Nell'attraversare quei sei sette chilometri a piedi, dato che l'autista non poteva venirci a prendere perché c'era questa coda infinita di mezzi per strada, tutta la gente ci veniva addosso, un vento in faccia di disperazione e rabbia. L'altra immagine è quella del ritorno, la mia fuga dall'Ucraìna insieme a tre, quattromila disperati che hanno preso il treno 67 Kiev -Varsavia, viaggio durato 27 ore. Insieme a donne e bambini potevano viaggiare solo gli uomini over 60, quindi gli anziani, tutti gli altri dovevano stare in Ucraìna a combattere. A bordo del treno c'era anche qualche straniero con il passaporto armeno o dell'Azerbaijan, che lavorava da anni a Kiev, che poteva fuggire perché in possesso di passaporto straniero; gli altri erano donne e bambini.

Sicuramente hai avuto modo di incontrare tanta gente e di ascoltare tante storie, soprattutto di disperazione. Raccontacene qualcuna, che possa servire ai nostri lettori per condividere il dramma di quelle persone, passate dalla normalità della vita quotidiana alla condizione di indigenza assoluta. Sono tante le storie che potrei raccontarti: quella di Juri, un bambino undicenne, che poi, durante il viaggio, si è sentito male per il caldo e lo stress e per il fatto che aveva lasciato suo padre a Kiev a combattere. Era lì con sua madre Svetlana e stavano andando in Belgio da alcuni amici. E ancora, la storia di Garkid, un bimbo di un anno e mezzo, bellissimo, con gli occhioni azzurri. Ad un certo punto scopro che la giovane donna che gli è a fianco non è la madre; fanno una videochiamata con i genitori e il bimbo comincia a piangere. Chiedo alla donna: "Allora, non sei tu la madre!" e lei mi dice: "No, io sono la zia." "Dove andate?" "Non lo so." Non sapevano nemmeno dove andavano; fuggivano. Poi c'è la storia di Natalia, professoressa universitaria che insegnava al Politecnico di Kiev; fuggiva con il marito e sua madre ottantottenne, andavano in Germania a trovare i due figli che lavorano lì. La vecchia madre, della quale ricorderò sempre il viso devastato dagli anni e dal peso della sofferenza di lasciare il suo paese, quando invece le esigenze della sua età avrebbero dovuto assicurarle altro, un finale di vita tranquillo. La figlia si prendeva cura di lei in tutti i modi, su questo treno che puzzava di affollamento e di ferraglia, un treno che noi in Italia non abbiamo conosciuto nemmeno quarant'anni fa.

Tra i due viaggi, quello di andata e, penso, quello ancora più drammatico del ritorno, c'è la guerra vista con i tuoi occhi e raccontata attraverso i collegamenti televisivi. Siamo stati per ben due volte al fronte a Irpin, un sobborgo poco fuori del centro, la via di accesso che le forze russe riprovavano a sfondare per arrivare nella capitale. Lì, la prima volta sotto i colpi dell'artiglieria pesante russa, sono morte tre persone, un'intera famiglia, madre e due bambini. Noi eravamo lì, abbiamo visto i teli bianchi mentre coprivano i tre cadaveri. Accanto a questi cadaveri c'era una valigia, una specie di lapide sembrava, messa lì accanto a quei corpi, un po' lapide e un po' una promessa della vita che non avrebbero potuto avere mai più. Quel giorno ci siamo fermati prima dell'ingresso di Irpin; quei cadaveri ci imponevano di non andare oltre. Siamo tornati due giorni dopo ad Irpin e abbiamo raggiunto il famoso ponte che è stato distrutto dalle forze ucraìne per impedire l'accesso e l'arrivo delle forze russe a Kiev; abbiamo visto la gente, centinaia e centinaia, che fuggiva da Irpin sotto i colpi di mortaio, attraversava e guadava il fiume per mettersi in salvo. Siamo arrivati fin lì nella parte di territorio più difficile, perchè eravamo esposti al tiro dei cecchini; abbiamo preso una delle bandiere bianche che erano a bordo strada e le abbiamo sventolate per evitare altri pericoli.

Immagino, umanamente, che la paura sia stata tanta… Dal punto di vista umano era molto forte la paura in quei momenti, poi subentrava la voglia di testimoniare. Ho scelto di fare questo lavoro per essere testimone del mio tempo e per me, essere lì ha significato tutto questo, vedere con i miei occhi quello che accadeva; è un po' il sale del giornalismo ed è un sale sempre più difficile da rintracciare nella quotidianità, perchè si sta riducendo sempre di più la necessità di vedere con i propri occhi, di testimoniarlo in verità agli altri, che è il senso e la ragione del nostro mestiere ed è ciò che consentirà a noi giornalisti di sopravvivere.

É il giornalismo che auspicava Papa Francesco nel messaggio rivolto agli operatori della comunicazione, l'anno scorso per la 54° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: "Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona". Ecco, ho avuto questa grande possibilità, di vedere con i miei occhi la guerra: c'era la paura, ma c'era di più l'adrenalina, la voglia di toccare con mano ciò che stava accadendo e di raccontarlo ai nostri telespettatori, di fare il nostro lavoro, semplicemente. Tutto qui.

Cosa ti ha insegnato questa esperienza e cosa pensi che rimarrà inciso, in maniera indelebile, nel tuo cuore? Mi ha insegnato che siamo fortunati: andare al supermercato, uscire per una passeggiata, essere liberi nel pensiero e nei comportamenti. Mi ha insegnato che questa libertà è la cosa più preziosa che abbiamo. Nella mia mente rimarranno indelebili le immagini delle tante vite private delle libertà più importanti; saranno incancellabili i volti dei bambini strappati alla loro infanzia per diventare subito grandi su un treno che li portava lontano dalla propria terra e dai propri cari.

Non voglio costringerti fraternamente a scivolare sul mio campo, ma in tutta semplicità, ti chiedo: hai mai pensato a Dio in quei giorni? A Dio ho pensato sempre. Ogni sera l'ho ringraziato per avermi regalato una vita felice, una famiglia splendida e un lavoro che mi consentiva di essere testimone del mio tempo. E poi gli chiedevo di buttare un occhio sul giorno che sarebbe venuto.

Grazie di vero cuore, Leonardo, per la tua testimonianza di grande umanità e passione per il tuo lavoro, anche a nome di quanti, leggendo queste righe, parteciperanno ancora di più al dramma, da te condiviso e raccontato, di questo popolo.
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